La Sindrome di burnout, o semplicemente burnout, evidenziata e descritta negli anni Settanta dallo psicoanalista Fraudemberg, è oggi riconosciuta come una malattia professionale, e come tale in Italia è prevista l’obbligatorietà di denuncia all’INAIL.
Il termine tradotto letteralmente ha come significato “scoppiato, bruciato, cortocircuitato”.
Il burnout interessa tutte quelle figure caricate da una duplice fonte di stress, ovvero quello personale e quello della persona aiutata. Ne sono affette soprattutto le professioni che richiedono un alto investimento emotivo, come i medici e le altre figure sanitarie, gli addetti ai servizi di emergenza, poliziotti e vigili del fuoco, psicologi, psichiatri, assistenti sociali, sacerdoti e religiosi, insegnanti, educatori, avvocati e ricercatori. Sta oggi raggiungendo dimensioni preoccupanti anche tra i lavoratori occidentali a tecnologia avanzata.
Cherniss parla della perdita di “vocazione”, descrivendo come sia evidenziabile la sindrome nei soggetti che, una volta appassionati della propria professione, la considerano ora freddamente come un semplice lavoro, senza trarne alcuna sensazione di soddisfazione e benessere. In questo senso, il burnout viene inteso come una sorta di “ritirata psicologica” dal lavoro, una strategia errata di adattamento che ha ripercussioni negative sia per la persona sia per l’organizzazione, una modalità di adattamento allo stress lavorativo messa in atto da operatori che non dispongono delle risorse appropriate per fronteggiarlo. Cherniss considera gli operatori impegnati nel sociale (le helping professions) come la categoria più vulnerabile e giustifica la perdita di passione per il lavoro come un progressivo disimpegno di fronte a situazioni stressanti.
La prevalenza della sindrome nelle varie professioni non è ancora stata chiaramente definita, ma sembra essere piuttosto elevata tra operatori sanitari quali medici e infermieri (secondo vari studi tra il 40 e il 50% dei medici di base andrebbe incontro ad elevati livelli di burnout) racchiusi in tre aree di disagio psicofisico e professionale: esaurimento emozionale, depersonalizzazione, riduzione delle capacità personali.
Gli aspetti negativi del burnout non si esauriscono nell’ambito lavorativo di chi ne è colpito ma hanno una pesante ripercussione anche sulla sua vita affettiva e sociale. Essendo “esaurito, bruciato, scoppiato” dal punto di vista emozionale, il soggetto interessato non ha più energie per gestire i piccoli conflitti della vita quotidiana, diventando così irascibile anche in famiglia.
Il burnout è correlato ad ansia ed esaurimento fisico, emotivo e mentale. Comporta un aumento della produzione di ormoni come il cortisolo, adrenalina e noradrenalina con conseguente aumento della pressione sanguigna, della glicemia e dei livelli di grassi nel sangue. Il burnout è pericolosamente associato ad un aumento delle malattie cardiovascolari.
Il burnout è il risultato dell’influenza ambientale ma anche di una inadeguata risposta dell’individuo alle sollecitazioni ambientali che spesso lo trovano privo di risorse e strategie emotive e comportamentali.
Finora le risposte della medicina sono state due: la terapia farmacologica e quella psicologica. L’obiettivo di ogni tecnica è sempre lo stesso: mettere in atto nuovi e positivi modi di rispondere ai problemi che la vita pone a ciascuno di noi. Il grosso problema è che lo stato ansioso, cronicizzandosi, determina spesso modifiche disfunzionali dei corretti meccanismi regolatori neurologici e diviene impossibile da recuperare con i consueti approcci terapeutici.
Oggi abbiamo a disposizione una nuova terapia medica. Il principio su cui si basa la tecnologia è quella di evidenziare al Sistema Nervoso le alterazioni inconsapevolmente subite dallo stress ambientale, affinché esso stesso sia in grado di correggere le modifiche cui era andato inconsapevolmente incontro, al fine di ottimizzare la sua risposta su tutti i meccanismi biologici di controllo che da lui dipendono.